“Maledette, peste, feccia”. L’accoglienza delle sopravvissute a Boko Haram

Dimenticatevi Michelle Obama, Cara Delevingne, Salma Hayek e tutte le altre celebrities mentre stringono in mano il cartello con la scritta #BringBackOurGirls. Le “nostre ragazze”, le migliaia di nigeriane rapite, stuprate, sfruttate, torturate dai terroristi di Boko Haram, sono comunque spacciate. Nemmeno la fuga, nemmeno il ritorno nei propri villaggi le potrà salvare. Perché ormai sono marchiate a vita come “annoba”: peste, maledette, feccia. Questo il significato del termine in lingua hausa. Donne che quando riescono a tornare nella loro terra natale spesso con sé portano per mano o in grembo i figli dei loro aguzzini, “iene in mezzo a cani innocenti”. «Il figlio di un serpente è anch’egli un serpente», ringhia la gente alla vista dei pargoli o dei pancioni delle ex prigioniere.

Nessuno vuole avere a che fare con le “mogli di Boko Haram”, con coloro che per mesi hanno servito il flagello della Nigeria e che sarebbero state anche pronte a farsi saltare in aria per la “nobile causa” della jihad. I terroristi fanno loro il lavaggio del cervello, le minacciano con la forza. Nascondono sotto le loro gonne cinture esplosive e poi si gustano lo spettacolo dei loro corpi smembrati, della carneficina seguita alla detonazione. Le kamikaze vanno incontro alla morte come automi, senza la speranza di un futuro, di un qualcuno che venga a liberarle.

Ma come dicevamo la redenzione non è contemplata per loro. Non saranno mai considerate delle sopravvissute, delle vittime. I campi profughi le snobberanno, nessuno le consolerà o si prenderà cura di loro. Guarderanno i loro figli crescere e si chiederanno se il germe del Male si sia mescolato al loro sangue. I mariti le ripudieranno, le chiameranno traditrici. E quelli che un tempo erano i loro amici, i loro famigliari se ne staranno alla larga, nel timore che siano state mandate da Boko Haram per indottrinarli e spedirli verso la Guerra Santa.

Per avere maggiori informazioni è possibile consultare il report “Bad Blood” dell’Unicef a questo link.

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