Isis le ha private dei loro figli. Ora lottano per aiutare altre madri

La madre di un terrorista dovrà convivere per sempre con i sensi di colpa. Si continuerà a domandare per tutta la vita dove abbia sbagliato, come non abbia potuto impedire che il proprio figlio si trasformasse in un assassino senza cuore. La gente la criticherà, la accuserà di essere stata un cattivo genitore, di avere generato un mostro. Ma queste donne spesso sono in realtà esse stesse vittime degli eventi: realizzano all’improvviso che il loro bambino non esiste più, che l’ideologia ha preso il posto dell’amore, dell’assennatezza, del rispetto per la vita umana.

Molte delle madri degli adepti di Isis non sanno cogliere in tempo il pericoloso processo di radicalizzazione che condurrà i loro figli alla scelta di partire per il Califfato. «Nell’Islam jihadista quella della madre è una figura estremamente importante», spiega Daniel Köhler, che insieme alla quarantenne canadese Christianne Boudreau ha fondato due associazioni di supporto per i famigliari di persone che vogliono fare o fanno già parte di gruppi radicalisti islamici, ossia Hayat e Mothers for life.  «Maometto ha detto: “il Paradiso si colloca ai piedi delle madri”. È a lei che devi chiedere il permesso per andare a fare la Jihad, o per dire addio». Nonostante gli innumerevoli sforzi per convincere il proprio figlio a tornare a casa, la maggior parte di tali donne si ritrova a  fare i conti con la dolorosa notizia che i loro ragazzi non ci sono in più, morti in guerra o uccisi dai nemici di Daesh. Spesso devono affrontare da sole l’agonia di un lutto tanto straziante quanto complicato: in queste situazioni il padre è una figura in genere assente o comunque sfuggente.

 

Christianne Boudreau, 46enne canadese. Foto di Emily Kassie

Christianne Boudreau, canadese, madre di Damian (foto di Emily Kassie)

 

E così le “madri dei terroristi” iniziano a cercare conforto tra di loro. Si scrivono, messaggiano, si incontrano. Parlano e si confrontano, scoprono che le storie dei loro figli sono molto simili tra loro. E il più delle volte trovano nell’attivismo l’unico modo per proseguire un’esistenza svuotata di significato: perdere un figlio è una tragedia, perdere un figlio che ha scelto la via del terrorismo è una condanna. Così si danno da fare, rendono la loro esperienza uno strumento utile per altre madri affinché siano in grado di comprendere se loro figlio sta imboccando la strada del terrorismo islamico. Proprio per favorire questo tipo di iniziative la ong austriaca Women Without Borders sta costruendo delle “scuole per le madri” nei Paesi colpiti dall’estremismo islamista, come il Pakistan e l’Indonesia (ma cinque sorgeranno anche in Europa), in modo da insegnare loro come impedire ai propri figli di cadere in mano agli estremisti.

Tra le madri attiviste spicca Christianne Boudreau, che dopo aver perso il figlio Damian nei pressi di Aleppo se ne va in giro per il Canada a spiegare agli insegnanti, agli studenti e ai dipartimenti di polizia come individuare i segni della radicalizzazione nei propri amici e parenti e che cosa fare. A migliaia di chilometri di distanza opera la belga di origini tunisino-marocchine Saliha Ben Ali, il cui figlio Sabri morì combattendo in Siria. Ben Ali, che vive a Bruxelles e frequenta il famigerato quartiere di Molenbeek, ha dato vita all’associazione S.A.V.E. Belgium. «Diamo un supporto alle famiglie con un figlio partito o morto in Siria e aiutiamo i genitori che temono casi di radicalizzazione», dice la donna. «Poi andiamo nelle scuole e cerchiamo un dialogo con i giovani per prevenire questi fenomeni. Ad oggi fanno parte dell’associazione quindici famiglie e tante madri che vogliono prevenire simili tragedie».

 

Saliha Ben Ali, belga di origini tunisine, madre di Sabri (foto di Emily Kassie)

Saliha Ben Ali, belga di origini tunisino-marocchine, madre di Sabri (foto di Emily Kassie)

 

Sempre a Bruxelles è attivo l’associazione Les parents concernés, creato da un gruppo di madri di ragazzi partiti per affiancare l’Isis con lo scopo di riempire un vuoto che le istituzioni sino ad ora non sono state in grado di colmare. «Siamo oltre quaranta famiglie», spiega Geraldine Henneghien, la responsabile. «Organizziamo gruppi di ascolto e facciamo pressioni sul governo: vogliamo modificare la legge perché i nostri ragazzi possano tornare indietro quando riescono a scappare. È giusto che paghino per quello che hanno fatto, ma non che vengano abbandonati». Anis, il figlio di Geraldine, aveva 18 anni quando nel gennaio 2014 è partito per la Siria: «Mio figlio si è avvicinato all’Islam in un momento di frustrazione, aveva finito la scuola ma non riusciva a trovare lavoro. Ha iniziato a frequentare la moschea, tornava a casa citando versetti del Corano, litigava con il padre, diceva che voleva andare ad aiutare le donne e i bambini. Così lo denunciammo alla polizia per associazione terroristica sperando di bloccare la sua partenza». Purtroppo però nessuno fermò Anis all’aeroporto il giorno che lascio Bruxelles diretto a Raqqa passando per la Turchia e, dopo poco più di un anno, morì sotto un attacco americano.

 

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